Mala o Japamala

japamala mala

Alla scoperta dei supporti alla meditazione…

Il japamala, più spesso conosciuto come mala, è uno strumento utilizzato per la pratica della meditazione, ma anche come oggetto estetico.

La nostra mente è molto spesso un turbinio di pensieri che difficilmente ci permette di rimanere concentrati a lungo su qualcosa, cerchiamo quindi di utilizzare dei “mezzi” che ci permettano di quietare pensieri ed emozioni, di rilassare il corpo fisico e di entrare in stato meditativo (tradizionalmente appuntare per 12 secondi la nostra attenzione sull’oggetto della meditazione, che può essere una preghiera, un colore, una respirazione, la porta a diventare concentrazione, 12 volte 12 secondi, quindi 144 secondi di attenzione mantenuta, ci porta in stato meditativo, provare per credere quanto può essere complesso non farsi distrarre dalla propria mente, anche solo per 12 secondi…).

Ma come tutto ciò avviene? Occorre allenare la mente attraverso la disciplina a concentrarsi, per fare ciò il mala (dal sanscrito “ghirlanda”) può essere un utile strumento nella recita e quindi ripetizione (Japa dal sanscrito) di preghiere e mantra.

Lo snocciolare i grani del mala mi aiuta a mantenere maggiormente la concentrazione e a focalizzare la presenza su quello che sto facendo.

Vi sono moltissimi modelli di Japamala, la caratteristica che li accomuna tutti è di avere 108 grani, numero caro alla tradizione indiana (in realtà un po’ trasversale a diverse tradizioni come anche il buddismo), curioso sia esattamente il doppio dei grani del rosario cristiano.

Molti sono i materiali che compongono le mala, da legni di varia natura, alle pietre, con fili rigidi o elastici, un po’ per tutti i gusti insomma.

Per la pratica a volte si prediligono mala più piccoli, a 27 grani (sottomultiplo di 108), per la facilità di utilizzo.

Nella scelta di un mala quindi potrebbe esserci tanto una discriminante pratica, di utilizzo dello strumento come mezzo di concentrazione, quanto un aspetto estetico.

In entrambi i casi la scelta ovviamente non sarà casuale, e quindi anche per il mala ci sarà una affinità che ci porterà a scegliere quello che per caratteristiche energetiche e vibratorie potrà esserci più funzionale, sia esso in legno, in pietra o minerale.

Ricordiamoci infatti, che tanto che lo si usi per la pratica, quanto che lo si indossi “semplicemente”, c’è sempre e comunque uno scambio, così come per ogni cosa in manifestazione.

A volte capita, gli amanti di mala, ma non solo, ne avranno sicuramente esperienza, che senza alcun apparente motivo la collana o il bracciale vada in mille pezzi, una delle motivazioni potrebbe essere proprio un accumulo energetico che si libera attraverso quella “esplosione”, una specie di “parafulmine” anche se temporaneo.

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CAMPANE GRANDI, MEDIE E PICCOLE

Campane picccole, medie e grandi

Grande, medio, piccolo dilemma….

Molto spesso, soprattutto per chi si avvicina all’acquisto della prima campana tibetana, mi viene richiesta la differenza tra le varie campane (grandi, medie, piccole), soprattutto tra le grandi, le misure mediane e le piccole. Volendo parafrasare le parole di Ṣalāḥ al-Dīn alla fine del film “Le Crociate” di Ridley Scott: “Nulla… Tutto”.

Per dire se anche è vero che a dimensioni di campana diversa, mediamente corrisponde un’innalzamento o un abbassamento della nota e quindi della frequenza/vibrazione, è vero anche che tutto ciò non può (e non potrebbe altrimenti) che essere percepito in modo unico da ognuno. Qualitativamente si può discriminare in base alle caratteristiche fisiche (dimensioni, peso), sonore (incidenza, persistenza, profondità) ma poi percettivamente ognuno fa capo a sé. La campana per me più bella del mondo potrebbe non suscitare nulla in qualcun’altro e viceversa.

Avremo comunque modo di approfondire in altri spunti queste riflessioni che trovano fondamento nella struttura della nostra coscienza che è appunto unica nella sua formazione e necessariamente risponde in modo unico alle sollecitazioni esterne e interne.

Quindi, tornando a noi e per riassumere, mediamente più la campana tibetana è grande, più le vibrazioni prodotte tenderanno ad essere basse, grevi e di conseguenza a lavorare (o se preferite trovare rispondenza vibratoria) su parti (chakra) più basse del corpo, più la campana è piccola più aumenterà la sua frequenza e la sua vibrazione, andando a sollecitare parti più alte. Questo ovviamente generalizzando estremamente.

Campane Tibetane ed Effetti (in)desiderati

L’utilizzo delle Campane Tibetane è di per sè una pratica che ci riporta a meditazioni rilassanti, a suoni celestiali con i quali cullarci magari durante una meditazione, un bagno caldo o una semplice serata in compagnia di amici con cui condividere questi piccoli doni.

La facoltà di creare disturbi, come spesso avviene con qualsiasi mezzo si utilizzi, non  è tanto dovuto al mezzo in sè, quanto all’utilizzo improprio da parte di chi ne fruisce.

Cerco di spiegarmi meglio: possiamo ad esempio utilizzare la campana tibetana per indurre uno stato di rilassamento e quindi di meditazione, le vibrazioni (se la campana è stata scelta con accortezza all’atto dell’acquisto) favoriranno questo processo e ci caleranno più rapidamente nello stato desiderato. Un utilizzo prolungato (questo tempo è ovviamente soggettivo, ma per iniziare si sconsiglia di andare oltre i 10/20 minuti) però potrebbe sortire effetti indesiderati quali: fastidi fisici ( soprattutto ove la vibrazione è avvertita più chiaramente) come mal di testa, nausea, vertigini, disorientamento e perdita di centratura.

Queste piccole indicazioni non sono atte a voler “spaventare” o intimorire chi cerca un approccio con questi bellissimi strumenti, ma solo dei consigli per far si che questa esperienza sia e rimanga piacevole.

Come per tutte le cose la discriminante la diamo noi, siamo noi i migliori “medici” di noi stessi, quindi all’avviso di un primo iniziale stato di tensione potrete abbandonare l’utilizzo delle campane, lasciare decantare e assestare il lavoro fatto fino a quel momento e riprendere con calma in un’altra sessione o momento.

A meno che…

e qui si apre effettivamente un altro capitolo, che come sempre rimanda alla soggettiva percezione. Potremmo per esempio chiederci: “perchè sto provando questo?” oppure “cosa la vibrazione di questa campana sta sollecitando in me?”, domande molto importanti ma che molto spesso o non vengono poste o non vengono risposte.

Ogni vibrazione con cui veniamo in contatto va a “contattare” uno spazio della nostra coscienza che, inevitabilmente, risponde rispetto “il materiale di cui è composta”. Quindi più quello spazio è refrattario ad una armonizzazione (ricordiamoci anche che non è questione di giusto o sbagliato ma è sempre un’esperienza che deve compiersi, quindi sempre e comunque buona, soggettivamente parlando) più sarà repulsiva e potrà essere quindi soggetta a reazioni anche sproporzionate rispetto la situazione che si sta vivendo. Con il tempo impareremo a riconoscere quegli spazi, a “conquistarli”, includendoli in noi e facendo sì che non emanino più frequenze distorte.

Fino a quel momento, sperimenteremo, basandoci sull’esperienza maturata fino a quel punto, concedendoci di conoscerci un po’ di più, quando lo riterremo possibile, la vita poi farà il resto…

Il Suono senza suono

Joshu era un monaco alla continua ricerca dell’illuminazione. Aveva sentito parlare assai bene di un vecchio maestro Zen, Abate di un monastero sperduto tra le montagne e non avendo più null’altro da fare, decise di fargli visita. 

Giunto al tempio chiese di poter essere ricevuto dall’Abate. Ottenuto il permesso, entrò nella stanza, si inchinò e si sedette.

Il vecchio maestro lo osservò a lungo, poi domandò: “Perchè sei venuto fin quassù?” 

“Maestro, vorrei raggiungere l’illuminazione!” 

“Bene”  disse il maestro “Scopo assai nobile, ma sai dirmi cos’è questa?”  e indicò la campana tibetana che gli stava di fronte.

“Oh maestro, questa è una ciotola sonora, le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Inizialmente era un oggetto d’uso domestico, forse un contenitore per i cibi, poi si scoprì che se toccata emetteva un suono. Abili artigiani iniziarono così a forgiarle mescolando con perizia sette metalli in proporzioni tali da favorire l’ottenimento di armonici che…”

Il maestro lo interruppe: “Bene, bene, vedo che sai!  Ora, però, metti le mani dietro la schiena.”

Joshu, perplesso ma rispettoso, fece ciò che il maestro gli chiedeva.

“Adesso fai risuonare questa campana.”

Il povero monaco non sapeva che dire, ma soprattutto non sapeva che fare.

Visto l’imbarazzo dell’allievo, il maestro disse: “Va’ a lavorare nella cucina del monastero, lava il riso, taglia le verdure, prepara i pasti e occupati dell’orto. Poi, quando avrai risolto il koan, ritorna qui.”

Con la campana sempre in mente, Joshu iniziò il suo lavoro di aiuto-Tenzo (il Tenzo è il cuoco del monastero e viene subito dopo l’Abate, per importanza). Avendo lavorato in passato come aiuto-cuoco, si muoveva assai bene in cucina: era veloce, preciso, tagliava una carota a rondelle in un attimo, con colpi secchi e rapidi di coltello.  Il Tenzo lo guardava, in silenzio. 

Aveva anche fatto, in gioventù, il contadino e vedendo quell’orto così dimesso, si procurò concimi e fertilizzanti per renderlo più produttivo.  I monaci quando passavano, lo guardavano, in silenzio. 

Decise anche di spianare quel piccolo giardino di sassolini all’entrata del tempio, visto che con tutti quei solchi aveva un aspetto trascurato.  Il maestro, dalla finestra della sua stanza lo guardava, in silenzio. 

Intanto pensava a come risolvere il koan: ci pensava in cucina, nell’orto, nel giardino e anche in Zazen (lo Zazen è la meditazione seduta), ma ogni soluzione che trovava, si dimostrava inadatta: quelle mani dietro la schiena facevano miseramente naufragare ogni tentativo.

I giorni passavano e si affievoliva sempre più la possibilità di risolvere con successo l’enigma. Nel frattempo i suoi movimenti erano divenuti più calmi, i suoi gesti più attenti, i suoi occhi più rispettosi e la ciotola non era più al centro dei suoi pensieri, ma si stava progressivamente spostando a lato, liberando lo spazio davanti ai suoi occhi.

In cucina ora usava un piccolo coltello e tagliava le carote e le altre verdure a cubettini, tutti uguali tra di loro e la guen mai (una minestra, cibo abituale nei monasteri) ne risultava squisita, poiché “… quando la guen mai è vera, tutte le cose sono vere, quando tutte le azioni della vita sono vere anche la guen mai diventa vera…” .  Il Tenzo lo guardava, sorridendo. 

Nell’orto aveva abbandonato i fertilizzanti e ora utilizzava una tecnica di coltivazione circolare, dove ciascun ortaggio cedeva al proprio vicino gli elementi nutritivi che aveva in abbondanza, ricevendone altri di cui era povero e tutti si proteggevano a vicenda da infestanti e parassiti.  I monaci quando passavano, lo guardavano, sorridendo. 

Si era anche costruito uno stano attrezzo a denti ricurvi per rastrellare il giardino di sassolini e tracciare piccoli solchi dalle geometrie armoniche intorno alle grosse pietre che aveva preso sulla montagna.  Il maestro, dalla finestra della sua stanza lo guardava, sorridendo.

Ajoshu ormai non pensava più alla ciotola, alle mani dietro la schiena, alla tana della tigre (così viene chiamata la stanza del maestro quando la si varca con una possibile soluzione del koan assegnato), ma lavava il riso, tagliava le verdure, raccoglieva i frutti, rastrellava il giardino.

Una mattina, dopo lo Zazen, come tutti i giorni il maestro si apprestava a dare inizio alla recitazione dell’Hannya Singhyo, il Sutra del Cuore. Tre rintocchi di campana precedevano la cerimonia.

Al primo rintocco un brivido, una scossa, percorse dal basso verso l’alto il monaco seduto in meditazione.

Tutto scomparve e le montagne che circondavano il monastero non furono più montagne, il torrente di cui si udiva il suono non fu più torrente, i monaci seduti accanto a lui non furono più monaci.

Al secondo rintocco fu il Vuoto.

Al terzo rintocco le montagne tornarono ad essere montagne, il torrente tornò ad essere torrente, i monaci tornarono ad essere monaci e Joshu vide per la prima volta il maestro, vide per la prima volta la campana e vide per la prima volta… il batacchio!

Terminata la recitazione dell’Hannya Singhyo, il monaco uscì dal tempio, si diresse verso l’orto dove tagliò un pezzo del bambù che sosteneva una piantina di pomodori; poi andò nel giardino, prese una piccola pietra e la legò con uno spago alla cima del bambù.

Si avviò quindi verso la tana della tigre, entrò con le mani dietro la schiena e si sedette.

In silenzio portò le mani a congiungersi davanti al cuore, con l’umile batacchio racchiuso in esse, poi depose il Suono senza Suono accanto alla ciotola, si inchinò e sorridendo, uscì.

Campane Tibetane in gravidanza

E’ oramai appurato che un  feto dal momento del concepimento entra automaticamente in uno stato di “apprendimento” che contraddistinguerà tutta la vita fuori dal grembo materno.

In queste prime opportunità di ascolto attraverso liquido amniotico e placenta, molti studi affermano come la stimolazione sonora possa far beneficiare al bambino di una crescita neronale e fisica più vigile ed attenta.

Così come la madre fumatrice “priva” dell’ossigeno il bambino che deve faticare per accaparrarsene, così uno stile di vita attento sia dal punto di vista alimentare, che delle abitudini agevolerà la crescita del piccolo  in modo più funzionale.

In particolare ovviamente a noi interessa trattare la parte del suono e delle vibrazioni che tanto sono care a chi per diletto, lavoro o passione ama utilizzare le Campane Tibetane.

L’utilizzo delle Campane Tibetane normalmente ha come immediato risultato (se troviamo e suoniamo la campana a noi intonata) di calmare, rilassare.

Il nostro respiro si fa più profondo, il nostro battito cardiaco rallenta e ci avviciniamo ad uno stato “meditativo“, il quale altro non è che uno stato di presenza vigile, e non come molti pensano uno stato di intorpidimento, ma su questo argomento torneremo un’altra volta.

L’ascolto di particolari generi musicali come ad esempio Mozart e di altri compositori barocchi, secondo gli studi di una psicologa Frances Rauscher, può essere associato ad un incremento delle competenze spazio-temporali nel corso della vita. Un’altra ricerca ha dimostrato che la musica classica, in particolare i movimenti lenti delle composizioni barocche o in stile barocco con la ricchezza melodica che le contraddistingue e il loro ritmo di 55-70 battiti al minuto, sposta il cervello da uno stato  di iperattività ad uno stato a di vigilanza e rilassamento. La musica classica stimola il rilascio di endorfine e riduce il livello degli ormoni dello stress nel sangue, dando beneficio sia alla madre che al bambino.

Come dicevamo, l’utilizzo della Campana Tibetana in gravidanza quindi, non fa altro che riproporre il beneficio degli effetti dal  corpo della madre  a quello del bimbo.

Trovare un Diamante su una strada fangosa

Gudo era l’insegnante dell’imperatore del suo tempo. Però viaggiava sempre da solo come un mendicante girovago. Una volta, mentre era in cammino verso Edo, il centro culturale e politico del shogunato, si trovò nei pressi di un piccolo villaggio chiamato Takenaka. Era sera e pioveva a dirotto. Gudo era bagnato fradicio. I suoi sandali di paglia erano a pezzi. In una casa colonica vicino al villaggio vide quattro o cinque paia di sandali su un davanzale e decise di comprarne un paio.

La donna che gli vendette i sandali, vedendolo così bagnato, lo invitò a passare la notte lì in casa. Gudo accettò con molti ringraziamenti. Entrò e recitò un sutra davanti al reliquiario della famiglia. Poi la donna lo presentò a sua madre e ai suoi figli. Notando che avevano tutti un’aria afflitta, Gudo domandò se fosse accaduta qualche disgrazia.

«Mio marito gioca d’azzardo ed è un beone» gli spiegò la padrona di casa. «Quando gli capita di vincere si ubriaca e diventa manesco. Quando perde si fa prestare i soldi dagli altri. A volte, quando è ubriaco fradicio, non rincasa nemmeno. Che posso fare?».

«Lo aiuterò io» disse Gudo. «Ecco un po’ di denaro. Procurami un gallone di vino buono e qualcosa di stuzzicante da mangiare. Poi andatevene a dormire. Io resterò in meditazione davanti al reliquiario».

Quando, intorno alla mezzanotte, il marito della donna rincasò completamente ubriaco, si mise a berciare: «Ehi, moglie, io sono a casa. Non c’è niente da mangiare?».

«Qualcosa ce l’ho io» disse Gudo. «Sono stato sorpreso dalla pioggia, e tua moglie mi ha gentilmente invitato a passare qui la notte. Per ringraziarla ho comprato del pesce e un po’ di vino, sicché puoi gustarne anche tu». L’uomo fu tutto contento. Bevve subito il vino e si sdraiò sul pavimento. Gudo rimase in meditazione accanto a lui.

Quando il marito si svegliò la mattina dopo, non ricordava più nulla della sera prima. «Chi sei? Di dove vieni?» domandò a Gudo che stava ancora meditando.

«Sono Gudo di Kyoto e sto andando a Edo» rispose il maestro di Zen.

L’uomo provò un’immensa vergogna. Non la finiva più di scusarsi con l’insegnante del suo imperatore.

Gudo sorrise. «In questa vita tutto è instabile» spiegò. «La vita è brevissima. Se tu continui a giocare e a bere, non ti resterà il tempo di fare altro, e farai soffrire anche la tua famiglia».

Fu come se la coscienza del marito si ridestasse da un sogno. «Come potrò mai compensarti di questo meraviglioso ammaestramento? Lascia che ti accompagni e che porti la tua roba per un pezzo di strada».

«Come vuoi» acconsentì Gudo.

I due si misero in cammino. Dopo tre miglia Gudo disse all’uomo di tornare indietro. «Altre cinque miglia soltanto» lo pregò quello. Continuarono a camminare.

«Ora puoi tornare indietro» disse Gudo.

«Faccio ancora dieci miglia» rispose l’uomo.

«Adesso torna indietro» disse Gudo quando ebbero percorso le dieci miglia.

«Voglio seguirti per tutto il resto della mia vita» dichiarò l’uomo.

In Giappone, gli odierni insegnanti di Zen discendono da un famoso maestro che fu il successore di Gudo. Il suo nome era Mu-nan, l’uomo che non tornò mai indietro.

Insegnamento: la luce della consapevolezza appare inizialmente fioca, ma per quanto piccola, nella sua splendida bellezza diventa qualcosa verso cui sarà impossibile distogliere lo sguardo.

La cimatica delle Campane Tibetane

Ormai da qualche decennio (in realtà i precursori si trovano già nel ‘600 e ‘700 nelle figure di Galileo Galilei e Robert Hooke) anche la scienza si è cominciata ad interessare all’interazione tra il suono (le onde sonore) e la materia.

Il padre della cimatica (lo studio dell’effetto morfogenetico delle onde sonore) Hans Jenny, ha approfondito questi esperimenti ponendo su un piatto di metallo delle sostanze in polvere fine, questo piatto collegato ad un oscillatore capace di riprodurre una vasta gamma di frequenze.

La polvere si deposita ove la vibrazione è pari a zero, e la cosa interessante da notare è che partendo da vibrazioni basse e forme geometriche abbastanza semplici, mano a mano che la frequenza si alza anche le forme assumono complessità via via maggiori.

Il video che segue è esplicativo.

Tale scoperta ci da modo di comprendere meglio come tutti i suoni, i rumori che ci circondano, influenzano la nostra composizione “anche” sul piano fisico. In questo modo possiamo immediatamente vedere come ogni giorno siamo sottoposti (molto spesso nostro malgrado) a stimoli sonori e vibrazionali di varia natura che direzionano in parte i nostri umori, amplificando i nostri disagi. Da qui l’esigenza di discriminare maggiormente quando possibile per ambienti, luoghi, persone (ebbene sì, anche noi siamo degli strumenti musicali molto particolari) che trasmettano energie e sensazioni positive, piuttosto che situazioni che suscitino in noi le sensazioni opposte (quante volte addebitiamo a noi malesseri e sensazioni che inrealtà non provengono da noi?).

Le campane tibetane in questo possono aiutarci, il loro suono, le loro vibrazioni, riescono a riportare un senso armonico al nostro organismo, ci aiutano a far si che la “polvere delle nostre emozioni” si collochi in modo più aggraziato e funzionale al flusso della vita. Ovviamente la campana tibetana non è un rimedio universale ad ogni nostro male sia esso fisico, sentimentale o mentale, gran parte del lavoro per giungere se non proprio ad un benessere, quantomeno ad un equilibrio meno instabile dovrà obbligatoriamente partire da noi, dalle nostre esperienze e dalle nostre trasformazioni operate in modo senziente.

Il cinese felice

Chi percorra in America le varie Chinatowns, non mancherà di notare la statua di un uomo vigoroso che porta in spalla un sacco di tela. I mercanti cinesi lo chiamano il Cinese Felice o il Buddha che ride.

Questo Hotei visse al tempo della dinastia T’ang. Non aveva alcun desiderio di definirsi maestro di Zen né di radunare molti discepoli intorno a sé. Invece girava per le strade con un grosso sacco di tela pieno di canditi, frutta e frittelle dolci da dare in regalo. E li distribuiva ai bambini che si raccoglievano intorno a lui per giocare. Aveva istituito un giardino d’infanzia della strada.

Ogni volta che incontrava un devoto di Zen gli tendeva la mano dicendo: «Dammi un centesimo, uno solo». E se qualcuno lo pregava di tornare in un tempio e di insegnare, lui ripeteva: «Dammi un centesimo».

Una volta, mentre era intento al suo lavoro-gioco, passò un altro maestro di Zen e gli domandò: «Qual è il significato dello Zen?». Per tutta risposta, Hotei posò immediatamente il sacco a terra. «Allora,» domandò l’altro «qual è l’attuazione dello Zen?». Subito il Cinese Felice si rimise il sacco in spalla e continuò per la sua strada.

La strada fangosa

Una volta Tanzan ed Ekido camminavano insieme per una strada fangosa. Pioveva ancora a dirotto.

Dopo una curva, incontrarono una bella ragazza, in chimono e sciarpa di seta, che non poteva attraversare la strada.

«Vieni, ragazza,» disse subito Tanzan. Poi la prese in braccio e la portò oltre le pozzanghere.

Ekido non disse nulla finché quella sera non ebbero raggiunto un tempio dove passare la notte. Allora non poté più trattenersi. «Noi monaci non avviciniamo le donne» disse a Tanzan «e meno che meno quelle giovani e carine. È pericoloso. Perché l’hai fatto?».

«Io quella ragazza l’ho lasciata laggiù» disse Tanzan. «Tu la stai ancora portando con te?»

Le campane tibetane e il suono dell’OM

Mi capita di tanto in tanto, che qualcuno, consigliato sicuramente da chi ne sa molto di più, in negozio o durante qualche fiera si avvicini, e con un aproccio del tipo “scusa hai mica roba buona”, e mi chiedono: “quale campana di queste riproduce il suono dell’OM”?

Lo confesso, le prime volte rimanevo per lo più perplesso/basito, in seguito divertito. La domanda non aveva malizia, ma l’ingenuità di un bambino che la vigilia di Natale vorrebbe rimanere sveglio per osservare Babbo Natale al lavoro….

Volevo quindi spendere due parole su tale argomento, affinchè chi ancora avesse dei dubbi li fugasse e fosse così più “leggero” nella scelta della propria campana, anche in assenza di caratteristiche che difficilmente potrebbero essere trovate in questo regno di natura.

L’OM  in varie tradizioni è il mantra per eccellenza, la sillaba sacra sanscrita che rappresenta il Tutto. Il Tutto per l’appunto, l’OM è il respiro divino, che con l’espirazione ha portato in manifestazione tutto ciò che esiste, dal granello di sabbia, alle galassie , durante l’espirazione l’atto creativo è in espansione, l’universo tenderà ad ampliarsi. A questo seguirà la conservazione, in cui ogni cosa troverà il suo compimento: è il mantenimento, quindi l’inspirazione che riporterà ogni cosa in seno al Padre, per avere un un Big Crunch (opposto del Big Bang).

Fatta questa piccola disserzione che non vuole in alcun modo sollevare dibattiti di tipo religioso/scientifico (riporto semplicemente, in modo molto superficiale, quella che nelle varie tradizioni orientali è il significato di questa sacra sillaba), e tornando alla domanda dell’avventore del negozio/fiera, mi sento di rispondere “mi spiace, ma non abbiamo campane così buone, dovremmo risalire la filiera di produzione, non di poco, e crediamo di non essere in grado di poter nemmeno immaginare come ciò possa avvenire…

Per concludere, non fatevi attrarre da ciò che il vostro conoscente, amico di fiducia che sa, vi consiglia, ascoltate la campana, ascoltate ciò che percepite suonandola, questa è l’unica cosa che veramente in questo momento, la maggior parte di noi può fare.